
Io avevo 14 anni ed ero un ragazzino piuttosto solitario e
taciturno. Mia allora in realtà non ne aveva moltissimi di più, anche se a me
pareva donna tanto matura quanto inarrivabile. Ma questo fa parte di quella
strana alchimia che è il concetto-tempo. Una cosa indubbiamente lineare e
matematica che in realtà, chissà perché, si trasforma man mano che gli anni
aumentano e che ci rende vecchi, cosicché l’abissale differenza che segna lo
spartiacque tra un ragazzino di 14 anni e una ragazza di 25 diventa poco più
che un rigagnolo quando quel ragazzino di anni ne compie 61 e quella ragazza ne
avrebbe 72.
Ma torniamo a Mia. Cantava “Piccolo uomo”, vincendo il
Festivalbar che chi ha vissuto quegli anni sa cosa rappresentasse nell’economia
dell’estate. Significava che le canzoni erano autenticamente la colonna sonora
di amori, magari solo sognati, di momenti difficilmente altrimenti
immortalabili. E così, come descritto splendidamente in una canzone di Renato
Zero, “Spiagge” arrivava l’autunno. Tutto quasi improvvisamente finiva
transitando velocemente in poche giornate settembrine ove il mare già si
allontanava quasi sfumando nel rosso intenso delle prime foglie cadute. Tornava
la scuola con noiosi pomeriggi persi sui libri e dentro, appunto, ti rimanevano
le canzoni, quelle dei momenti felici o più semplicemente di ozio. Ti
rimanevano Mia, l’eterno Lucio, i tormentoni dei Pooh. Ti rimanevano dentro le
voci e i personaggi che amavi e le loro canzoni. “Piccolo uomo” appunto era una
di queste.
Personalmente però mi innamorai di Mia esattamente l’estate
dopo nel 1973, quando si ripresentò nelle Hit Parade del grande Lelio Luttazzi
con una canzone struggente dall’incedere avvolgente quale “Minuetto”.
Una canzone adatti ai più grandi che ai miei 15 anni. Eppure
mi emozionava come poche altre, forse perché intuivo in quel brano qualcosa di
cui non potevo far parte. La storia è nota. Si tratta di una ragazza
perdutamente innamorata di un uomo, che io immaginavo molto più grande di lei,
molto più esperto, probabilmente sposato che usava la sua vittima adoperandola
per i suoi desideri più biechi e carnali, non rendendosi conto, o forse
rendendosene perfettamente conto di quanto male facesse alla sua povera preda,
colpevole solo di provare dei sentimenti che la tenevano legata a quella
improponibile relazione.
Un ragazzino come me, che idealizzava l’amore non avendolo
mai realmente vissuto provava sofferenza per tanto scempio. Avrei voluto fare
irruzione nella canzone, avrei voluto avere l’età giusta per far innamorare di
me la povera ragazza e portarla via da tutta quella sofferenza. Avrei voluto
sostituire quell’uomo affinché le carezze e i baci non fossero più qualcosa di
sporco. Sogni di ragazzino, ma a volte a quell’età sono anche queste sensazioni
a farci innamorare dei nostri miti. Miti come nel caso di Mia Martini che poi
ci accompagnano nel tempo. Spesso per sempre.
Ovvio che anche l’amore per Mia si perse nel correre veloce
degli anni. Nella dimensione reale della vita, degli amori, dei vari
accadimenti. E anche le canzoni di Mia in realtà finirono poco dopo per vari
motivi che non conoscevo. Altri motivi e pochi altri miti soppiantarono quella
ragazza dagli occhioni enormi della quale mi ero, per un’estate, perdutamente
innamorato.
La ritrovai però molti anni più tardi nel 1982, quando,
ormai uomo, ero per la seconda volta inviato per una importante radio a Sanremo
e la dovevo intervistare. Cioè io dovevo trovarmi a pochi centimetri da una
entità prima solo immaginata e poi per tanti anni dimenticata della quale ero
stato comunque innamorato. È difficile spiegare cosa si prova in quei momenti e
non credo neppure di avere la capacità letteraria per descriverlo. Si mescola
tutto. Capisci banalmente che l’oggetto dei tuoi sogni è in realtà una persona
esattamente come te. Capisci, lo so che è stupido, che esiste. È qualcosa di
reale. E che se non ti sbrighi a riemergere da tutta quella confusione mentale
di orrende banalità magari finirà anche per mandarti a cagare pensando di
trovarsi al cospetto di un povero scemo. Ricordo che balbettai un fioco quasi
impercettibile “Mia, anche tu qui a Sanremo…”, corretto da un perentorio “Come
mai hai scelto di venire al Festival” poi scavalcato da un “scusa Mia sono
emozionato”. Lo dissi poche volte nella mia vita "sono emozionato". Non fa parte
del mio carattere genuflettermi davanti ai potenti, siano Santi e Miti viventi.
Ma quella volta sentii di doverlo confessare perché il cuore batteva, la salivazione
era azzerata, come direbbe Fantozzi e in fondo credo che pensai pure di
doverglielo. Per quello che aveva rappresentato, per quello che ritrovandomela
di fronte ancora rappresentava.
Piccolo dettaglio non trascurabile: Mia aveva cantato la
sera prima e ricordo bene che già da quando il suo nome era comparso tra i
partecipanti non ero affatto colpito da questa rentrée, che consideravo appunto una
“riesumazione sanremese” come tante volte si era osato fare al Festival.
Insomma… toh chi si risente… Tre minuti per pensare e magari dire le solite
considerazioni: la voce non è più la
stessa, oppure però questa sa ancora cantare… Oddio come è invecchiata oppure
che è sempre una bella donna. Per poi archiviare il tutto con un inutile
quanto fatuo va beh… chi è il prossimo? In realtà così non fu. Né per me, né
per molti altri che accanto al sottoscritto assistevano alla esibizione di Mia
giù in sala stampa.
Dal primo attacco di “E non finisce mica il cielo” un
brivido ci scosse tutti. Mia non solo c’era ancora, ma era diventata se
possibile ancor più brava! Mia non si era dunque mai allontanata dal mio
immaginario di ragazzo, ma aveva semplicemente assunto una dimensione diversa.
Non era più un sogno erotico, ma oggi rappresentava davvero quello che a
15 anni forse non si può comprendere: l’arte pura. Che nel caso di una
interprete significa portarti dentro una canzone e fartela sentire tua sino a
identificartici. Tornando alla intervista in qualche modo mi ripresi e la
portai a termine, anche perché man mano che l’emozione lasciava il posto al
desiderio di conoscere sentivo Mia davvero sempre più persona. Con tutte le sue
enormi fragilità forse provocate da un dramma che io al tempo neppure
immaginavo.
Dopo quel Sanremo per me ce ne furono molti altri mentre Mia
fu nuovamente messa da parte dal mondo della canzone ma questa volta, a mio
avviso, mai più dal suo pubblico.
Personalmente programmavo regolarmente i suoi dischi, anche
quelli che ahimè non ricevevano dalla TV i passaggi necessari per farli
conoscere alla maggior parte della gente. Erano canzoni struggenti come
“Bambolina”, che narrava del complicato rapporto tra una figlia e il padre
adorato eppure sempre troppo distante. Mia tornò nuovamente nel 1989 con
“Almeno tu nell’universo”, con “Gli uomini non cambiano” e ancora una volta
intrepretando magistralmente una canzone, come “Minuetto”, di Franco Califano:
“La nevicata del ’56.” Tre canzoni una più bella dell’altra dove Mia si
consacrò, se ce ne fosse stato bisogno, a mio modo di vedere l’interprete più grande
che l’Italia abbia mai avuto. Mi viene da pensare forse a Gilda Mignonette, ma
è roba colta e soprattutto d’altri tempi.
Personalmente la rividi durante l’ultimo suo Festival nel
1993.
Cantava in coppia con la sorella Loredana in un qualcosa che
mi parve troppo artificioso e forse studiato al tavolino. Cantava “Stiamo come
stiamo” e la sua voce era forse persino inadatta a una canzone rockettara di
quel tipo in cui veniva sovrastata dalla sorella, specie nella esibizione dal
vivo. Comunque la vidi durante una sessione di interviste dedicate alle radio
libere che si teneva nella Hall di un grande albergo sanremese. Mi pare il
Mediterraneè.
Ebbi l’impressione di una donna stanca che quasi si
trascinava, poggiando le sue cose in malo modo, quasi che tutto le provocasse
stanchezza e fastidio. Comprese quelle interviste quasi tutte uguali che gli
artisti erano costretti a subire durante quei troppi giorni di Festival. Non
ebbi proprio il coraggio di avvicinarla. Di disturbarla. Certo ancora una volta
non immaginavo che la sua lontananza, il suo risalire lentamente la china, il
suo non volersi arrendere fosse dovuto, oltre che a qualche problema fisico da
quelle solite incredibili cattiverie che si perdevano nell’atroce gioco della
superstizione che nel mondo dello spettacolo di vittime ne ha mietute
parecchie.
Tuttavia una cosa la voglio dire. Due momenti e due cose mi
hanno colpito particolarmente guardando la fiction televisiva. Uno è la bravura
di Serena Rossi di comunicare in un certo momento del film lo stato di
abbandono e prostrazione nel quale Mia negli ultimi anni si deve essere
probabilmente dibattuta, un certo modo di camminare appunto, di muoversi quasi
pesante nonostante un fisico non certo giunonico e poi proprio la parte
riguardante “le voci” di un suo possibile portar male.
E già, perché un conto certe cose è leggerle o apprenderle
così per sentito dire ed un conto è stato per me vederle rappresentate in un
film. Veramente mi chiedevo, mentre scorrevano le immagini, come può la gente,
non tanto essere così cattiva, che alla mia età credo di averlo capito e
sperimentato, ma prima di tutto essere così cretina, pecoreccia, decerebrata da
credere davvero, sino a farsene condizionare a certe cose. Come può un essere
comunque evoluto, seppur non esageratamente intelligente quale l’uomo credere
davvero che un suo simile possa portare sfiga.
Ci mancherebbe nel mondo dello spettacolo la superstizione è
di casa e tutti quelli che questo mondo l’hanno bazzicato lo sanno bene.
Tuttavia un conto è su certe cose riderci, magari per ridicolizzare, anche se
in modo cafone, qualcuno. L’ho abbiamo fatto in tanti. Altra cosa è crederci
davvero. Mi sembrava una cosa incredibile e il film da questo punto di vista mi
ha scioccato.
Abbiamo perso anzitempo una grande artista il cui cuore a un
certo punto ha ceduto proprio quando forse ci stava regalando il meglio di se
stessa, come quando ospite di un programma di Baudo dedicato a Sanremo si
produsse in una serie incredibile di rivisitazioni dei successi del Festival.
L’abbiamo persa più volte e in vari momenti della nostra vita. Una prima volta
negli anni settanta, poi ancora nel decennio successivo. Mia era solo una donna che
sapeva amare. Per questo era così fragile e insieme così forte. Sono convinto
che ci avrà perdonati. Del resto avere fatto a meno di lei dal 1972 ad oggi per
almeno 40 anni su 47 credo sia già una punizione per tutti noi enorme.
Ciao Mia… ora dobbiamo essere noi a
cantarti “Almeno tu nell’universo” illudendoci che tu ci possa ancora ascoltare. Modifica
Ti abbraccio...caro mio amico.
RispondiElimina